Non basta un tema a fare una storia
“Quando il popolo non avrà più da mangiare, allora mangerà i ricchi”, disse Jean Jacques Rousseau (pare) durante quella che fu la più importante rivoluzione borghese europea. Di recente, l’espressione eat the rich sta entrando nel vocabolario collettivo in riferimento a quelle narrazioni che hanno in comune una sorta di rabbia contro l’élite economica.
È una tendenza soprattutto del settore visivo (quello che, ricordiamo, attenua il confine - molto amato da certe altre élite - tra “arte” e “intrattenimento”): film e serie tv richiamano apertamente il tema o più semplicemente si inscrivono nel filone. Penso a Succession, The Crown, ma soprattutto a The White Lotus, e anche, sotto certi aspetti, all’ultima stagione di You. Penso a film come Triangle of Sadness, The Menu, Bodies Bodies Bodies, Glass Onion: Knives Out.
Per quanto cari possano essere certi temi per ognuno di noi, non sono mai però una buona lente d’osservazione, e se da un lato la mia formazione mi porta a notare gli aspetti culturali prima ancora di quelli narrativi, so bene che discernere tra i due è un processo imprescindibile nel soppesare il valore di una storia. Cosa succede infatti se un tema (un tema qualsiasi, ma questo accade quasi sempre con temi importanti, profondi) diventa l’unico perno intorno a cui ruota una narrazione? Che quella narrazione perde di spessore, di concretezza, di poetica, e rischia di ridursi a cartellonistica.
Non è sicuramente il caso del film di Ruben Ostlund, Triangle of Sadness: duro, ironico, spietato nel suo smantellamento di una certa classe di super ricchi che vengono letteralmente ricoperti di escrementi, riuscito perché nello stesso film Ostlund mette in scena un ribaltamento dei ruoli di potere, innescando un disagio nello spettatore che (vivaddio) non può basare la sua visione solo sull’empatia, e non viene imboccato di un commento sociale.
Se però le storie si mettono a ridicolizzare i ricchi solo in quanto ricchi, come accade in The Menu e, in misura diversa (perché filtrata dei livelli di distacco ironico impliciti nella serie) anche in You, il mio timore è che questa modalità un po’ bulla diventi non solo controproducente (le vittime di The Menu finiscono per farmi quasi pena), ma soprattutto narrativamente povera.
Bisogna riconoscere come la distribuzione delle urgenze sociali nelle storie rischi, se abusata, di passare da dirompente e urgente a retorica e fastidiosa, nella misura in cui un tema viene sfruttato per il suo appeal, lucidato, colorato di una fotografia molto glamour, svuotato del suo senso più profondo e ridotto a slogan, a copertina, a trending topic. I personaggi di The Menu sono semplici figurine bidimensionali, e il film suggerisce, a scopo istruttivo, uno sguardo limitato al loro ruolo di classe, mostrandoli senza spessore e fornendo immagini e commento alle immagini in un unico pacchetto. Che noia!
Prendiamo invece quello che è considerato il film capostipite di questa tendenza: Parasite. Il film di Bong Joon-ho racconta la storia di una famiglia povera che si infiltra nella vita di una famiglia molto ricca, e lo fa senza moralismi, mantenendo uno sguardo narrativo onesto su entrambe le parti, senza piegare e manipolare la prospettiva dello spettatore alla volontà di stabilire il “messaggio” del film. Come Succession e The Crown, non ha bisogno di giudicare i suoi personaggi: li anima e li incornicia in una struttura mai retorica.
Parasite è un film che tocca un tema che mi sta a cuore, ma io l’ho amato perché l’attore protagonista ha una presenza espressiva scenica potentissima, l’ho amato perché il montaggio sembra un manuale di struttura cinematografica, l’ho amato perché la costruzione della tensione e l’uso delle inquadrature ne fanno un horror di livello altissimo; per la scrittura, per i dialoghi, e per la complessità di un coro di personaggi messi in scena con estrema onestà e spietatezza.
Poi, certo, l’ho amato anche perché tratta un tema che mi sta a cuore. Ma soprattutto perché Parasite è un gran bel film. E, in fin dei conti, solo questo mi interessa.
Chiara M. Coscia
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