Nascondere i dialoghi sotto al tappeto
La storia ce l’abbiamo tutta in testa, così crediamo.
Il protagonista e i comprimari si muovono davanti ai nostri occhi con moto proprio, così ci sembra. E l’ambientazione? Ne abbiamo un plastico sulla scrivania, di fianco al computer, che possiamo toccare con le nostre mani prima di metterci a scrivere.
Cominciamo a narrare questa storia e per un po’ pare vada tutto liscio, solo che a un certo punto i personaggi aprono bocca e si mettono a parlare: disastro.
Il primo consiglio che mi hanno dato sui dialoghi in discorso diretto è stato: Fanne il meno possibile.
L’ho seguito, okay, ma non mi è bastato. Nessuna formula può bastare in narrativa, tantomeno se vuole essere un tentativo di sfuggire a un problema senza affrontarlo.
Diminuire la presenza di qualcosa che non gestiamo bene è solo nascondere la polvere sotto il tappeto, un trucchetto da quattro soldi. Facile da praticare? Forse, ma quando cominciamo a scrivere non lo facciamo per rimanere nella nostra comfort zone, lo facciamo per metterci con le spalle al muro. E allora partiamo dalla base: il perché dei dialoghi.
Prendiamo qualche pagina di un romanzo oppure un racconto e proviamo a vivisezionare i paragrafi, le frasi che compongono la voce narrante. Le frattaglie che ci ritroviamo fra le mani possiamo ricondurle, per quanto mescolate fra di loro, a quattro tipi: sommario, considerazione, dialogo e azione. Sono i quattro strumenti che la voce narrante ha a disposizione e tutti dovrebbero trovare spazio nella pagina solo in quanto funzionali alla storia.
Purtroppo, per i dialoghi diretti, questo principio di funzionalità viene messo molto spesso da parte a favore di un principio naturalistico dietro il quale ci giustifichiamo: le persone parlano, quindi lo fanno anche i miei personaggi.
Solo che i personaggi non sono persone, e devono parlare unicamente quando il loro botta e risposta porta avanti la dinamica drammaturgica. È così che va interpretato quel consiglio, fanne meno possibile, ed è in effetti probabile che, se rispondessero alla giusta funzione, rimarrebbero solo due battute su dieci dei nostri dialoghi diretti.
Si potrebbe obiettare che le otto battute rimanenti servono ad animare il conflitto tra i personaggi oppure a mostrare com’è-fatto-il-protagonista. Mi permetto di dissentire: quello che cerchiamo in narrativa non è il conflitto tout court e non nasce dal litigio tra i personaggi, quanto dalla resistenza del protagonista al proprio cambiamento; a furia di usare il dialogo diretto per mostrare il conflitto/litigio ci ritroviamo con romanzi pieni fino alla nausea di battibecchi.
E riguardo alla funzione rivelatoria della psicologia del personaggio, anche questa è un'illusione. Ogni singola battuta dovrebbe rispondere a questa funzione, non solo alcune. Dunque ancora una volta non ne servono dieci, ne basta una.
Dobbiamo metterci in testa che non è il trucco isolato a funzionare, ma è l’insieme dei vari elementi che compongono una storia a tirarne fuori il significato e quindi poi a fare di ogni battuta una rivelazione.
Se i dialoghi non funzionano non è perché non sappiamo scriverli ma perché, in barba alle nostre illusioni, non abbiamo approfondito le motivazioni dei personaggi, la storia non ce l’abbiamo davvero chiara in mente, e non sappiamo neanche perché abbiamo deciso di ambientarla in quel posto piuttosto che in un altro.
Inutile provare a scrivere e riscrivere le battutine. Quello che dobbiamo fare è prendere la successione di eventi che abbiamo immaginato, metterla nero su bianco in mezza pagina e provare a capire se già così ha un senso, se è significativa della nostra verità autoriale. Se è davvero una storia: solo così i nostri dialoghi cominceranno a funzionare.
Luca Mercadante
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La settimana editoriale
È in corso il Salone del Libro di Torino, e si sta parlando molto di questo articolo di Vincenzo Latronico su Il Post.
Su La Repubblica Affari e Finanza, il confronto tra le vendite di libri nel pre e post-pandermia.
“Scopo di questo libro è quindi ricostruire la direzione culturale e formale seguita da una parte della narrativa italiana contemporanea deducendola dall'osservatorio privilegiato e specifico del Premio Strega degli ultimi vent'anni.”
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E qui l'analisi di Simonetti a Mi limitavo ad amare te, uno di quei libri che il critico definisce "da Premio Strega" un po' come una volta si diceva "da Sanremo" per le canzoni.
Su Repubblica, Sara Scarafia intervista Jordan Ifueko, scrittrice afroamericana regina del genere fantastico.
Su Linkiesta, Silvia Moreno-Garcia non ne può più dell’etichetta "realismo magico" appiccicata ai romanzi sudamericani: “Se la narrativa di genere latinoamericana viene rapidamente bollata come realismo magico, ciò può indurre l’industria editoriale a ignorare un’ampia varietà di libri e di storie e può impedire che alcune opere siano tradotte o acquistate perché non rientrano in uno schema che però è ormai obsoleto”.
“Chi lavora con la letteratura maneggia essenzialmente il rimosso, l’indicibile. Il segreto in cuore a ciascuno che non può stare in bocca a nessuno”. Michela Murgia su La Stampa.
Barbara Baraldi è la nuova curatrice di Dylan Dog.
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I titoli più attesi a Cannes secondo il Rolling Stone.
I vincitori del Premio Andersen 2023.
Il vincitore del Premio Strega Ragazzi come miglior libro d’esordio.
Appuntamenti e opportunità
Da giovedì 25 a sabato 27 maggio si terrà a Lecce il Festival delle Letterature.
Dal 25 maggio al 15 giugno torna a Ravenna e Lugo ScrittuRa.
Venerdì 26 maggio la Giuria dei Letterati si riunisce a Padova per selezionare la cinquina finalista del Premio Campiello e annunciare il Premio Opera Prima.
Dal 26 al 28 maggio ci sono i Dialoghi di Pistoia.
Dialoganti, i fantasmi delle newsletter passate.
Ci vediamo sabato 27 maggio.
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