Anche i memoir possono essere felici?
Ciclicamente nel mondo editorial-culturale vengono fuori legittimi sospetti (forse un po’ troppo annaffiati di Senso di Giustizia e Invocazione di Rivoluzione) in proposito della strada spianata che tocca in sorte ai privilegiati figli d'arte, sospetti che però si rivelano chiacchiericcio quando Signor Talento e Signora Maestria effettivamente si coagulano in persona X qualsiasi sia il suo cognome.
È il caso di Lia Piano, figlia di Renzo – celebre architetto, e del suo Planimetria di una famiglia felice.
Degna dell'insegnamento di Georges Perec sulla memoria di finzione, dell'orecchio di Natalia Ginzburg sull'estetica e la filosofia e la melodia del linguaggio familiare e della grazia e leggerezza con cui Brunella Gasperini narrava scene di vita casalinga, Lia Piano ha scritto un romanzo che ho letto tutto d'un fiato (come mai avrei pensato di dire in vita mia) molto lontano dall’essere facilotto e banale ma senz’altro delicato, gioioso e giocoso, rivelatore di mondi, traboccante di idee strutturali strepitose, dalla costruzione scenografica dei capitoli a quella sintattica delle frasi, e in fin dei conti leggero anzi leggerissimo, in senso buono.
Lia (età scuole elementari) e i suoi due fratelli (un ragazzo gonfio di ormoni e un ragazzino balbuziente) approdano con madre e padre (i genitori colti, geniali e artisti che ci aspettiamo siano) e la governante (madre di un milione di figli e grande pragmatica che parla solo in calabrese stretto) in una grande villa a Genova, dopo anni un po’ nomadi in giro per il mondo. L’approdo significa per tutti loro doversi sintonizzare con la città lì fuori, che gravita attorno a regole, orari per i pasti, scuole e uffici, ruoli sociali, norme sanitarie da dover rispettare e a cui non erano per niente abituati.
Il romanzo è un graduale avvicinamento a questo Mondo Nuovo, che inevitabilmente spezza un po’ la vitalità ammaliante della famiglia ma senza che se ne ricavi il moralismo della vita vera brutta e cattiva che uccide la creatività. La protagonista-autrice spinge il pedale oltre la biografia e oltre l’autofiction, e inventa il genere dell’autobiografia magica, trascinando il lettore da un iniziale realismo al puro e immaginifico circo (galline infestanti, bambine sui frigoriferi) senza mai perdere in verità. È, il suo, un grandissimo omaggio alle infanzie felici (che sono poche ma ci sono, e meno male) che forse tutto ingigantiscono e deformano in meraviglia, o forse no, forse sono proprio così.
Una storia che dimostra ai lettori di tragicissimi memoir come me che si può sbattere la felicità in copertina senza vergognarsene, perché le felicità non sono solo privilegio così come i dolori non sono solo miseria. E lo si può fare in forma fantastica, esagerata, incredibile eppure credibilissima. Perché al solito non è la realtà che dobbiamo cercare (per farcene cosa, poi?) ma le verità che una storia nasconde. Che non siano fede cieca né scienza esatta, ma solo scorci di vita e immaginazione, ogni vero scrittore la sua, ogni vero lettore anche. La verità che qui ho scoperto io è che alla felicità ci si deve anche un po’ voler abbandonare.
Francesca de Lena
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